Canale di Suez e mar Rosso

 

L'Africa del nord a vela

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Viaggio in Spagna


 
 
I primi raggi del sole illuminavano le vele piú alte, quando notammo una linea viola all' orizzonte. Era porto Said, l' entrata del canale di Suez dalla parte del Mediterraneo.

Da sempre era qui che cominciava la vera avventura. Al Nord, le divinitá dell' Olimpo evocano i banchi di scuola, la lavagna e le traduzioni di creco e di latino. All' Est, il Dio biblico ricorda il catechismo e la chiesetta del villaggio. All' Ovest le carcasse dei carri armati di Rommel finiscono di arruginire nella sabbia del deserto. Al Sud ... niente ! Nemmeno un minuscolo resto di rovina, nient' altro che la misteriosa via delle caravane delle spezie che si perde nel nulla, nel mistero.

Il canale di Suez ! Gloriosamente inaugurato nel 1869 dall' imperatrice Eugenia in persona, fu costruito grazie all' incredibile energia del viconte Ferdinando Lesseps, la cui enorme statua di bronzo, eretta su un' isola al centro del canale, fu segata alla base e buttata alle ferramenta nel 1959 dal colonello Nasser.

Disegno a penna di O.Gonet

 

Passato il canale, la discesa verso il Sud é ideale. Il regime dei venti é comandato piú o meno dalla monsone del Nord che regna nell' oceano Indio. Il mare era bello ed il vento portante. Un lento dondolio, le onde sorpassavano mormorando il veliero sotto un cielo che stordiva di luce. Avevamo spiegate le vele e non c' era piú niente da fare a bordo a parte contemplare il tempo che passava.

Lontanissimo, a tribordo, bassa sopra le innumerevoli onde, s' intravedeva la costa africana. Raz Abu Fatama, marsa Halaib, raz Hadarba, marsa Ubeila. Una linea che spariva, un golfo ; una linea che diveniva spessa, un capo.

Sulla carta geografica, il Tropico del Capricorno si trovava a portata di mano. Non c' era piú né primavera né autunno. Il vento del Nord, alzava la sabbia calcinata del deserto ed accendeva degli aghi di luce giallastra all' orizzonte.

... Ed un giorno venne il primo scalo in una vera laguna tropicale. Prudentemente, il veliero si era introdotto nel passaggio rimasto aperto nella barriera di corallo. Giusto all' entrata, le onde del mare aperto si rompevano fragorosamente. Aldilá, tutto era calma. Non c' era quasi piú vento, non c' erano piú onde. L' acqua era verde-azzurra, d' una fresquezza ed una trasparenza deliziosa. La spiaggia era gialla, rossa o marrone. Il deserto, ubriacato di calore, tremava sotto un sole metallico.

Il veliero, quasi senza vento, si muoveva lentamente, sorvolando la sua ombra che si vedeva scivolare sul fondo dell' acqua. Appena il sole tramontato, ci dovemmo fermare perché dei grossi panettoni di corallo, sconosciuti dalle carte nautiche, potevano apparire bruscamente a fior d' acqua.

L'Atuana nel Mar Rosso

 

Allora saporeggiammo la bellezza della notte tropicale. Ascoltavamo i rumori umidi che facevano i pesci nuotando alla superficie, il misterioso scricchiolio del legno del battello, il respiro pesante del mare che, fuori, rompeva le onde sulla barriera di corallo. E poi c' era la luminositá d'oltre tomba che accendeva le moltitudini planctoniche, l' infinitá di stelle e la luna sospesa su uno strascico di luce che tremava sulle increspazioni della laguna.

Ai primi dell' alba, l' incongruitá della nostra presenza nell' immenso paesaggio, ci saltó alla vista. Il tenue rumore delle voci, una polea che gemeva, una catena che raschiava, gli odori mediocri della pece, della pittura, della cucina, sembravano futili nel sontuoso silenzio, nell' immensitá del cielo, nell' immobilitá minerale.

Sott' acqua, un altro mondo, incredibilmente esuberante, lui.

Il corallo delicato e variopinto, faceva vivere un' affluenza di pesci da paradiso con forme di porcellana. Pesci angelo, pesci dottore, trombetta, pappagallo, clown. Aldilá della barriera, delle grosse cernie, rosse e marrone, entravano e salivano mollemente dai loro buchi. Nell' azzurro profondo, non molto lontano, i pescicani. Il pescecane tigre, il pescecane martello, il pescecane blu. Ed i barracuda argentati, i tonni enormi ! In superficie, le timide tartarughe.

E tutti vivevano, mangiavano, pascolavano, attaccavano,dormivano, nuotavano ; in gruppi, famiglie, coppie o solitari ; nascosti fra le alghe o in acqua libera ; in grotte o in profonditá ; nei fiori del corallo o giusto sopra. Erano giallo limone, rosso vivo, verde casino, grigio perla, nero ebano. In forma di strumenti da musica, di chiome, di spirali, di punti, di lame di coltello. Erano folti, piatti, stellati, dentellati, brillanti od opachi. Od erano tutto ció alla volta, visti in piccolo od in grande, da lontano o da vicino.

Mettendo la testa fuori dall' acqua, guardavamo meravigliati una terra totalmente desertica. Non una pianta, non un animale a delle centinaia di chilometri in giro. A due passi della piú folle abbondanza, un uomo perduto senz' acqua dolce nel deserto, muore in due ore, schiacciato dal sole come sotto il piede d' un gigante.

* * *

Lavorammo navigando otto mesi lungo la costa del Mar Rosso. Vivemmo mille avventure, che raccontai in un altro libro. Ed un giorno dovemmo prepararci a ritornare nel Mediterraneo. Dopo un soggiorno cosí prolungato nelle acque tropicali, il battello aveva bisogno di alcune riparazioni. A quell' epoca, l' unica grande cittá veramente moderna, era Beirut. Era lí che dovevamo andare. La stagine non era né bella né brutta : il vento del Nord tutta la giornata e la sera calma totale a partire dalle sei. Durante la prima settimana, tutto andó bene : di giorno rimontavamo il vento, navigando un poco su babordo, un poco su tribordo. La sera, quando il vento cessava, continuavamo col motore.

Per quel lungo viaggio senza lavoro scientifico, avevamo ridotto l' equipaggio. Eravamo solo cinque, contando Bechir, il cuoco.

L' ATUANA non era un gran battello. Una trentina di tonnellate al massimo. Cinque marinai erano piú che sufficienti.

Disgraziatamente non avevamo previsto che all' entrata del golfo di Suez, fra il Sinai e lo stretto di Jubal, il mare ci mostrerebbe l' aspetto mostruoso che prende a volte.

Una sera l' orizzone si riempí di vento, piú di cento chilometri all' ora. E giusto di proa ! Era solo l' inizio della tempesta, ma giá il mare era sconvolto da onde cortissime, dei vortici di sabbia oscurivano il cielo velenoso. Di fronte a quel vento compatto, a quelle onde come un muro liquido, il battello non avanzava quasi piú. Avevamo ridotto le vele a quasi niente : una di trinchetto, una di mezzana ed un poco di maestra. Era per ammortire i colpi e diminuire il beccheggio.

Pittura a olio di O.Gonet (80 x 115cm.)

 

Allora, con vela e motore, facevamo dei lunghi zig-zag attraverso tutta la larghezza del golfo. Di giorno la lotta era dura, ma l' orrore cominciava veramente la notte. Ci dovevamo orientare nell' oscuritá e virare prima di toccare gli scogli della costa. Piú ci avvicinavamo alla terra e piú il buio era carico di sabbia. Il sestante era inutile, la radio gonometria troppo approssimata. Non ci rimaneva piú che il buon senso e l' intuizione. Dovevamo sorvegliare il piú piccolo cambio del mare : il rumore, la forza delle onde e non só che altro, che indicava al marinaio che gli scogli erano prossimi. Insomma dovevamo sbrogliarcela mentre ci battevamo a piene mani contro le vele che schioccavano, contro le onde che si fracassavano sul ponte, contro il vento che ci obligava ad afferrarci per non essere portati via, contro i movimenti bruschi del battello che saltava in tutti i sensi.

Uno solo di quei zig-zag, per dieci o dodoci ore di lotta, ci faceva avanzare verso il Nord di solo quindici miglia. Meno di trenta chilometri per tutta una notte di battaglia.

Ed il tempo passava. Un giorno, due notti e le cose impeggioravano... Il piacere sportivo dell' inizio, cedeva il passo alla stanchezza triste ed umida.

Venutomi il turno di riposo, crollai sulla cuccetta. Ed ecco che vennero a chiamarmi prima dell' ora. Max, il compagno di viaggi e di avventure, aveva avuto un accidente. Mentre tensava una drizza alla base dell' albero maggiore,aveva ricevuto in pieno viso la scotta di un fiocco che si era strappato da sopra a sotto. Il poveretto l' aveva ricevuto in pieno nell' occhio.

Dovevamo toccare terra imperativamente. Ma con quel tempo spaventoso, bisognava aspettare la luce del giorno prima di rischiarsi fra gli scogli sconosciuti che bordavano la costa. La carta indicava un campo di petrolio a Raz Garib, a trentacinque miglia piú al sud. Vento in poppa, perdemmo rapidamente le miglia che avevamo sudato tanto a guadagnare. E nel frattempo, spuntava l' alba.

A Raz Garib esisteva un riparo per bel tempo, ma con quella tempesta , il golfo era percorso dalle onde di piú di tre metri di cavo.

Impossibile mettere il canotto al mare ! Il mio povero amico, malgrado l' occhio scoppiato, dovette partire a nuoto. Vedevo la sua testa che si allontanava ballando sull' enormi onde. Era l' unica soluzione.

Per fortuna troverá sulla spiaggia, un geologo americano, venuto per caso a visitare il pozzo di petrolio vicino, con un aereo privato. Immediatamente lo trasportó al Cairo, da dove, con un aereo di linea, Max arrivó a Zurigo, dove un chirurgo potette salvargli l' occhio.

...Tutto questo lo seppi piú tardi. Per il momento, la nostra lotta contro la tempesta, non faceva che cominciare. Per colmo di disgrazia, vennero a dirmi che non avevamo piú acqua dolce a bordo. Un rubinetto, mal situato, s' era aperto ed il serbatoio si era svuotato nella stiva. A parte qualche bottiglia di liquore, rimaneva soltanto una provvista di succhi di frutta. D' altra parte, mi trovavo ormai ad essere l' unico marinaio sperimentato a bordo di quel gran veliero preso nella tormenta.Ma non era il momento di lamentarsi. Un' ora dopo il nostro arrivo a Raz Garib, la catena dell' ancora si ruppe. Dovemmo immediatamente ripartire abbandonando la piú grossa delle nostre ancore. Mentre il veliero derivava inesorabilmente verso la costa, mi precipitai nella sala delle macchine. Meno male, il motore partí al primo tentativo. Pochi secondi piú tardi ci saremmo fracassati sulla spiaggia, fra le onde furiose.

Ed il gran zig-zag ricominció.Il vento fischiava nell' arbolatura, le onde si precipitavano sul ponte l'una dopo l' altra, da proa a poppa in un fracasso infernale. Nel trascorso della giornata, notai che l' imbarcazione diventava sempre piú pesante. Rispondeva meno bene al timone, si radrizzava sempre piú lentamente dopo le raffiche di vento che l' inclinavano paurosamente. Un colpo d' occhio nella sentina mi diede la risposta : era piena d' acqua. La pompa della cala non funzionava piú. Impossibile di ripararla in alto mare. A partire da quel momento dovemmo pompare a mano durante un' ora, ogni quattro ore. Mentre sopravveniva la notte, anche il motore cominció a tossire, avanzavamo con solo tre cilindri, a mezzanotte non ce ne rimanevano piú che due.

La situazione diventava critica, dovevamo arrivare a qualche parte per riparare. Non avevo chiuso l' occhio da trentasei ore ! Il motore funzionó piú o meno a un quarto della sua potenza, sino all' alba, poi si fermó.

Rimaneva soltanto l' immenso urlare del mare.

Difficilmente, giacché il veliero non era maneggiabile con cosí poca vela, riuscí a virare di bordo per dirigermi verso la costa, dove la carta indicava un' insenatura grande aperta sul mare, ma nella quale potevo sperare delle onde meno alte e vigorose.

Giunti nella zona la piú favorevole dell' insenatura, feci buttare l' ancora. Ma, orrore ! l' ancora invece di afferrarsi al fondo, scivolava ed il battello era spinto lentamente, ma inesorabilmente su una parete di rocce.

Giá ci sentivamo perduti, quando infine l' ancora si afferró a una piccola massa di corallo che si avanzava come un' avanguardia, giusto ai piedi degli scogli.

Dovevamo uscire da lí rapidamente.

Ma per il momento non era possibile, sintanto che il motore non funzionava. Ogni volta che la catena dell' ancora si tendeva, erano le trenta tonnellate del veliero che tiravano aumentate dalla forza ed il peso dell' onda che si fracassava sul ponte. Impossibile sperare che, solamente a quattro, potessimo tirare su l' ancora a mano. Avevamo bisogno del mulinello elettrico, quindi del motore. Il guasto di questo dipendeva dall' alimentazione in combustibile. Infatti, per un diesel, era sufficiente che una bollicina d' aria si introducesse nel circuito che trasportava il carburante dal serbatoio al motore, per disattivare le pompe che iniettavano il carburante nei cilindri e farlo fermare. Mentre i serbatoi erano scossi, agitati in tutti i senzi dalla tempesta, non sembrava impossibile che una bolla d' aria si fosse introdotta nel tubo. Era necessario, dunque, svuotare i tubi, sbarazzarli di qualunque bollicina d' aria e riattivare le pompe. Nella calma di un porto, sarebbe stata una cosa di venti minuti. Ma lí, per le scosse del battello, dovevo afferrarmi per non essere sbattuto contro il motore o il tubo di scappamento ancora roventi. Per colmo di disgrazia, il tavolo da lavoro, si era rovesciato e tutte le ferramenta erano sparse sul suolo della sala delle macchine o nella sentina piena di acqua grassa e nera.

Con le due braccia immerse in quel liquido nero che mi saltava in faccia e m' innondava ad ogni impennata del battello, cercavo alla cieca la tenaglia di cui avevo bisogno. Non potevo farne a meno, dovevo sopportarlo.

Ed ecco che, appena trovata la tenaglia, mi resi conto che i manicotti erano talmente stretti da tanto tempo, che non riuscivo ad aprirli.

Lá toccavo il fondo della disperazione !

Per calmarmi e riflettere, uscí sul ponte per accendermi una sigaretta. Ero coperto di grasso nero e viscoso, ma la brutalitá del vento mise dell' ordine nelle mie idee. Mi resi anche conto che il veliero si era avvicinato ancora di piú agli scogli. Dovevo sbrigarmi, la catastrofe era vicina. Mi precipitai giú e con la forza della disperazione, mi misi a martellare con una massa di ferro, il manico della tenaglia che stringeva il maledetto manicotto.

Oh miracolo, si muoveva, girava, si apriva ! Salvati.

Un' ora dopo, il motore funzionava con normalitá. Col suo aiuto, tirammo sú l' ancora ed abbandonammo quel luogo mortale.

Era il momento, calava la notte. Ancora venti minuti e ci saremmo trovati nella completa oscuritá per passare la barriera di corallo.

E l' eterno e laborioso zig-zag ricominció Non avevo ancora potuto dormire e lo stato di fatica dei miei compagni non era migliore.

Era il momento del disgusto, del mal di mare e del " qualunque cosa, basta che finisca ".

A poco a poco impercettibilmente, verso mezzanotte, qualcosa si calmó. All' inizio fu quasi impalpabile. Al timone mi sembró che il veliero navigava un poco piú facilmente. Si manteneva meglio nella direzione giusta, la velocitá aumentava. Passó quasi un quarto d' ora fra una di quelle orribili raffiche di vento, che coricavano quasi completamente il battello, e la seguente. E poi...piú niente durante mezz' ora. La raffica seguente fu nettamente meno forte. La cresta delle onde era meno alta...

Due ore dopo tutto era finito ! Calma totale. C' era ancora un poco di mar di fondo, ma era finito. Il mare esalava nuovamente un profumo di bel tempo e si vedevano perfino alcune stelle. Ce l' avevamo fatta, avevamo sopravvissuto. Di colpo cedette la terribile tensione nervosa. Ridevamo di piú bella. Allá é grande. Eravamo ubriachi dalla gioia di sentirci fra amici, in sicurezza bien campati su un ponte solido. Bevemmo direttamente all' ultima bottiglia di whisky. Vittoria ! Il sole si alzava all' orizzonte in un magnifico cielo azzurro, sul mare quasi in calma.

Finalmente lo scalo a Suez ! Dopo tanto spazio e vento, ecco le palme ,le macchine, gli odori di cucina e di gabinetti otturati.

Il veliero era saggiamente ammarrato alle bitte del vecchio yacht club inglese. Ma gli inglesi erano partiti da molto tempo ed il club, aldilá della decadenza, finiva di crollare.

Sull' erba ridiventata terra morta e spaccata, qualche ridicola poltroncina piena di distinzione, zoppicava sul piede mancante. I tavolini erano spariti. La magnifica piscina per il water-polo, era vuota. O, per essere piú esatti, si riempiva tristemente di vecchie carte, di escrementi e di vecchi pneumatici. In un angolo, stavano ricostituendo un bar con barili usati di petroleo, aperti e srotolati. Un cameriere, pomposamente vestito con un frac rattoppato ai gomiti con della corda, offriva il the ai nuovi membri del club, tutti colonelli egiziani promossi recentemente e miracolosamente.

Era il " bidonville " al palazzo di Buckingham. Ma l' ospitalitá era gentilmente familiare.

In cittá tutto, assolutamente tutto, era rotto o crollante o arrugginito. Gli sportelli del tassi che fermai per farmi portare in cittá, si chiudevano con fil di ferro. Se le ruote posteriori dell' autobus che seguimmo, sprofondavano tanto nella carrozzeria, era probabilmente perché le balestre erano rotte. Malgrado le scintille che produceva il paraurti fregando sulle rugositá della strada, alcuni profittatori vi si afferravano all' insaputa del controllore. Agli incroci, saltavano a terra per prendere la corrispondenza.

In un cantiere abbandonato, dietro una palizzata sdentata, si ergeva lo scheletro d' un palazzo in costruzione. Dei mattoni, un monticolo di sabbia calpestata, un altro di sgombri, un ammasso di ferramenta arruginite. Contro un muro, erano depositati, chisá perché, una fila di tazze di gabinetti. Erano poggiate cosí, direttamente per terra. Ma i passanti ne avevano approfittato : erano pieni sino al bordo di escrementi.

Passando da un bar ad un altro, mi feci rapidamente molti amici. Ma, in fondo, non ne avevo piú voglia. No ne potevo piú. Poco prima, quelle persone mi divertivano, ora m' innervosivano. Vedevo chiaramente l' astuzia meschina dietro la cordialitá. Allora me ne andai alzando le spalle. Oh ! e poi avevo voglia di un vero gran pranzo, con carne di vacca che aveva pascolato sull' erba ben verde. Dopo tanto pesce e polli rachitici, la sognavo, la vedevo, non penzavo piú ad altra cosa. E poi avevo voglia di bere tanto e tranquillamente, senza aver bisogno di stare in guardia.

Fuori, per le strade di Suez, la propaganda politica affiorava dapertutto. Mi ricordo per esempio, d' un enorme affisso, incollato su tre piani di una facciata tutta slogata. Un ingenuo disegno, rappresentava un fiero soldato egiziano. Al gomito dell' enorme braccio nudo, fra il braccio e l' avambraccio, schiacciava un minuscolo soldato isdraelita gesticolante e terrorizzato. Non lo sapevo, certo, ma la Guerra dei Sei Giorni era imminente.

Vista dal mare aperto, Suez rappresentava la sicurezza, il confort ed il calore umano. Peró venne la lassitudine. Non pensavamo piú che a riprendere il mare.

Era d' altra parte l' ultimo momento. Passammo il canale di Suez con uno degli ultimi convogli prima della guerra. Ancora una settimana trascorsa al yacht club della cittá ed eravamo bloccati senza speranza di ritorno per molto tempo.

 

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